Presente in tutte le case degli italiani, collezionata in certi casi, prodotta ormai in varie forme e dimensioni, è lo strumento indispensabile per il caffè, rito dopo pasto per eccellenza: stiamo parlando della caffettiera. In particolare parliamo di quella italiana per eccellenza, quella che è poi stata la più copiata, la Moka Bialetti. Scopriamo quindi cosa si nasconde dietro al design Bialetti che ha segnato intere generazioni e mantiene il primato nonostante l’arrivo di moltissime imitazioni e macchine automatiche a cialde e a capsule.
Dalla caffettiera alla Moka
Le origini incerte del rito del caffè circondano questa bevanda da un’aura di mistero legato a terre per noi lontane come la Persia e lo Yemen. Proprio qui, secondo il critico e gastronomo Pellegrino Artrusi, è il posto per gustare il caffè più buono, esattamente nella città di Mokha.
Ma torniamo in Italia, in casa di Alfonso Bialetti, nei primi anni del 1930. Sul fornello una caffettiera napoletana (di quelle in cui l’acqua veniva scaldata da un lato e poi andava ribaltata e aspettato il tempo dell’infusione, tra i cinque e i dieci minuti, prima che potesse essere servito). In lavanderia una lisciveuse in funzione. Proprio grazie alla lisciveuse, uno dei primi prototipi di lavatrice ad acqua calda, che Bialetti ebbe l’intuizione per la sua caffettiera. La lavatrice infatti utilizzava una particolare tecnologia che permetteva la risalita dell’acqua calda nel cestello per sciogliere meglio il sapone, e lui pensò di poter utilizzare lo stesso meccanismo per la preparazione del caffè.
Così Alfonso Bialetti, nel 1933, progettò la prima caffettiera che permetteva di avere un caffè più velocemente rispetto alla caffettiera napoletana classica. Decise di chiamare questa nuova caffettiera Moka, per ricordare proprio il luogo nominato dall’Artrusi, non sapendo che sarebbe diventata il simbolo del Made in Italy dato l’enorme successo avuto.
Il design Bialetti
Il design, nonostante gli anni che passano, è rimasto praticamente invariato. La sua forza infatti sta proprio nelle linee essenziali e nell’utilizzo di un metallo “povero”. Bialetti infatti era, in quel momento, titolare di un’azienda di semilavorati in alluminio, metallo utilizzato in maniera massiccia durante le guerre perché resistente, incorruttibile ed economico.
Il design Bialetti prevedeva quattro elementi tutti in alluminio, una guarnizione in plastica, sostituibile, e un manico in bachelite (ora sostituito con la plastica). La forma del serbatoio è ottagonale. Per essere più comoda maneggiata con guanti da forno o uno strofinaccio, e utilizza la stessa logica dei bulloni: è possibile imporvi più forza anche facendo un movimento circolare come l’avvitamento. D’altronde Bialetti aveva una formazione tecnica meccanica. Dalla base il corpo poi si stringe nella parte alta diventando circolare con appunto la filettatura per essere avvitata sotto alla parte superiore.
Dentro c’è poi il serbatoio con il caffè che costringe l’acqua in ebollizione a passare in uno spazio ristretto per aumentare la pressione e ridurre il tempo dell’infusione. L’acqua infine passa da un filtro molto fine per far sì che non rimangano residui di polvere ed esce dal canale della parte superiore. Proprio grazie al passaggio forzato produce il suono tipico che annuncia l’uscita del caffè.
Un design semplice, funzionale, che permise alla Moka Bialetti di diventare un simbolo italiano. Il figlio di Alfonso, Renato, una volta rilevata l’azienda di famiglia, pubblicizzò la caffettiera in tutta Italia. Per farlo scelse il famoso “omino coi baffi”, caricatura dello stesso Renato Bialetti, realizzata da Paul Capani. Da allora la produzione passò da 70.000 pezzi l’anno a 1 milione di pezzi l’anno.