Font Sans Serif a gogo, stampatello come se non ci fosse un domani, e nero – che, si sa, sta bene con tutto. Ti pare di aver notato una certa incidenza, ultimamente, di queste caratteristiche? Beh, perché probabilmente è proprio così. Moltissimi loghi, anche di realtà molto famose, si stanno un po’… appiattendo. E non ti parlo di loghi ridicolmente uguali l’uno all’altro, ma di una vera e propria omologazione.
A twittare dell’elefante nella stanza è stato David Perell (350k+ follower) e in breve tempo è andato virale, nonostante il caldo di luglio. Ma è proprio vero che quando lo noti, non riuscirai più a vedere altro.
In teoria il design di un logo dovrebbe essere unico, riconoscibile, d’impatto, a prova di tempo. Eppure si comincia a notare una certa omogeneità che travalica anche i classici confini delle nicchie di mercato e della storicità. Si tratta di una coincidenza o c’è, effettivamente, un motivo dietro? Vediamolo insieme.
La tendenza dei loghi al minimalismo
Che il minimalismo sia LA tendenza del momento è un dato di fatto. L’arte di concentrarsi sull’essenziale ha ormai toccato tutti i settori: moda, arredamento, lifestyle e, ovviamente, anche la grafica. “Less is more”, anche nei loghi dei grandi, grandissimi marchi.
Ma perché questo livellamento estetico minimalista? Probabilmente il fattore scatenante è stato la necessità per un logo di essere facile da identificare, sempre. Il che significa anche -e soprattutto- sul piccolo schermo del cellulare.
Loghi articolati o comunque difficili da elaborare passano in secondo piano mentre si scrolla velocemente sui social. È necessario che il marchio possa essere afferrato anche in pochissimi istanti.
Identificabilità o appiattimento estetico?
A primo impatto la questione dell’identificabilità anche su dispositivi piccoli e in un breve lasso di tempo può sembrare logica… Ma a pensarci bene, il problema della leggibilità dei loghi regge davvero su display a retina 4K? E davvero ci si mette più tempo a riconoscere un logo complesso ma unico rispetto ad uno facile ma uguale agli altri?
Forse, oltre al fattore scatenante, questo livellamento ha anche altre cause dietro. Nel magico mondo di internet l’omogeneità è essenziale: più due interfacce sono uguali più sarà facile usarle entrambe. Insegnare ad un utente qualcosa di nuovo è difficile e bisogna farlo solo se necessario. E anche se necessario, l’utente medio tenderà a fare paragoni con il “vecchio” -spesso in negativo.
L’attenersi ai determinati canoni dell’User experience è una caratteristica positiva, non un difetto. E questo, ovviamente, vale anche per i loghi, che fanno parte in pieno dell’UX.
L’omologazione dei loghi in un mondo iperconnesso
Come la si metta la si metta, il punto focale di questo appiattimento è l’utente internet medio. O meglio, come questo assimila i loghi sul suo device di preferenza. Il che, in realtà, ha totalmente senso. Tutto il concetto dei loghi gira, da sempre, sul venir assimilato dall’utente finale.
Quindi, se internet, i social o gli adv sembra che stiano uccidendo la diversità estetica dei loghi… probabilmente è così. Ma è così perché funziona perfettamente nel loro contesto, e non perché non ci siano più dei designer capaci in tutti gli edifici di Facebook.
C’è da considerare che la maggior parte dei marchi, specialmente quelli molto grandi, hanno più di un logo registrato di cui sono proprietari. In aziende come Burberry, Yves Saint Laurent, Google c’è sempre il logo “storico”, o classico, a cui viene affiancato quello -o quelli- alternativi.
Questi possono essere usati in terreni di prova come nuove linee o nuovi prodotti, oppure rimanere nel mondo online. Non è quindi da escludere questa duplicità di loghi: quelli classici, differenti, unici per una realtà fisica e quelli più anonimi per internet.